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Astrologia: una pratica di presenza - COMUNICAZIONE CRISTALLINA

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di Gisella Cannarsa
Diritti riservati)

 
Oggi esistono molti modi di avvicinarsi all'astrologia, e non è un problema.
Il problema nasce quando si smette di distinguere.
C’è un’astrologia tradizionalista, che si muove entro significati codificati, spesso ripetuti senza più interrogarsi sul contesto storico e umano in cui sono nati.
C’è un’astrologia previsionale, che cerca risposte rapide, date, eventi, certezze, e rischia di ridurre il simbolo a oracolo.
C’è un’astrologia psicologica, che osserva la struttura dell’individuo, i suoi conflitti, le sue dinamiche interne.
C’è un’astrologia archetipica, che amplia lo sguardo e considera il modo unico in cui ciascuno percepisce e incarna gli archetipi.
Esiste poi l’astrologia karmica, intesa come strumento di evoluzione e responsabilità, ed esiste anche una sua versione più statica, che si ferma al racconto di “chi saremmo stati in altre vite”, senza tradurre quella memoria in coscienza presente.
C’è l’astrologia che esplora gli asteroidi, frontiera stimolante e complessa, e c’è ancora chi attribuisce ogni inciampo alla “sfortuna” di Mercurio retrogrado, dimenticando che il simbolo non assolve, ma interroga.

Tutte queste letture coesistono. ma non sono equivalenti.
La differenza non sta nello strumento, bensì nella profondità dello sguardo, nella responsabilità dell’interpretazione e nell’effetto che produce sulla persona.
Un’astrologia matura non toglie potere all’individuo, non lo infantilizza, non lo inchioda a un destino.
Al contrario, restituisce senso, possibilità di scelta e consapevolezza.
Il cielo non serve a spiegare perché siamo fatti così.
Serve a comprendere cosa facciamo di ciò che siamo.

E poi ci sono io.
Ho lasciato da moltissimo tempo l’astrologia delle previsioni puntuali — il lavoro, il matrimonio, l’evento — non perché la ritenga “sbagliata”, ma perché non riconosco in quelle domande il senso profondo del simbolo.
Sono le stesse domande che non mi appartengono nemmeno nella lettura delle carte: cercano una risposta esterna, quando il lavoro simbolico chiede presenza, ascolto e responsabilità.
Quando guardo un cielo, guardo pianeti e segni, certo, ma non riesco — e non voglio — separare i livelli.
Il significato tradizionale convive con quello archetipico.
Il mito dialoga con il tempo storico.
Il simbolo si muove nel contesto culturale in cui lo stiamo osservando qui, ora.
Il grafico del momento celeste, per me, è un mandala: una forma viva, non una griglia da riempire con definizioni fisse.
E non posso fare a meno di tradurre ciò che quel cielo muove in me, prima ancora di restituirlo all’altro.
Perché il simbolo, se non attraversa la coscienza, resta lettera morta.

Nel mio modo di lavorare convivono voci diverse, a volte persino discordanti: Tolomeo e la struttura classica, Sementovsky-Kurilo e la visione ciclica, André Barbault e l’astrologia mondiale, Capone, Dane Rudhyar, Liz Greene, Carl Gustav Jung e molti altri attuali, innovativi, esplorativi, intuitivi...
Non per aderire a una scuola, ma per lasciare che le visioni si interroghino a vicenda.
A volte ne emergono letture controcorrente.
Altre volte silenzi necessari.
Perché l’astrologia che mi interessa non serve a dire cosa accadrà, ma a comprendere che tipo di coscienza è chiamata a formarsi dentro un tempo.
E questo, oggi più che mai, è il suo compito più alto.

 
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